Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2003 - La Nferta
“Don Giulio Genoino cacciava ogne anno la Nferta, comme la cacciava lo Barone; e cheste erano le bannere de le Nferte, e lo spireto che nc’era dinto sarrìa vastato a resorzetà no muorto; co cheste se faceva annore a lo pajese, a lloro, a ll’amice, e sta povera lengua nosta, che cchiù d’uno lle carda spisso a uocchie de puorco la lana, avea trovato, comme la vite l’urmo, n’appuojo pe fare sfuorgio de lle bellezze soje. Se stette zitto lo Sio Barone; se nne morze, nzanetate nosta, Don Giulio; restaje vidulo lo Lavenaro, lo Pennino e Puorto de lle belle Muse che nce nzuccaravano, portannoce nzuocolo l’anema e lo cuorpo. […] Nferta no nne so’ asciute cchiù!… Che ll’è rumaso a la lengua nosta? De ntesechire a no pontone, comme ntesechesce na fegliola nchiusa int’a quatto mura, perzo c’ave chillo che lle voleva bene. Penzanno a chesto, tiennero de premmone comme sonco, mm’aggio ntiso spartere lo core, né mme fido cchiù de rejere a bedé morì de morte gnagnolla sta lengua cinciosa, aggraziata, speretosa, traseticcia, concettosa, e che nne faje nzo che se nne vole: onn’è, ca mm’aggio schiaffato ncapo de dà de mano io a na Nferta napolitana.”
Queste parole furone scritte da
Ferdinando Bottazzi, poeta napoletano del primo ’800, allorquando, nel 1859,
diede alle stampe la “Nferta pe lo Capodanno de li Quatto de lo Muolo”.
Il povero Don Ferdinando si rammaricava perché con la morte del Barone, alias
Michele Zezza, e di Don Giulio Genoino, la pubblicazione delle Nferte
era sensibilmente calata. E, preoccupato, si domandava se la nostra lingua era
destinata ad appassire come appassisce una ragazza chiusa dentro quattro mura.
Eppure, questa lingua, che il Bottazzi definisce “cianciosa, aggraziata,
speretosa, traseticcia, concettosa e che nne faje nzo che se nne vole…”
questa lingua, è ancora viva. Non tanto per il gran numero di persone che
quotidianamente la parla, quanto per la capacità di veicolare sentimenti,
emozioni, espressioni, letteratura e poesia di un intero popolo che la eleva al
rango di lingua ufficiale.
Nella scia di questa tradizione ormai
scomparsa, e per un recupero della stessa, oltre che per propiziare gli auguri
per il nuovo anno che sta arrivando in un modo diverso dalla solita
cartolina, ho dato alle stampe questo volumetto che contiene 12 brevi
componimenti, quanti sono i mesi dell’anno. Quattro appartengono alla mia prima
pubblicazione Vela ’e penziere; quattro alla seconda ’A strata d’ ’e
stelle, e quattro, infine, sono inediti.
Le copie per gli amici ne dovevano
essere 365 tante quanti i giorni dell’anno, ma il tipografo si è meravigliato: «Tenite
tutte chist’amice?». Sicché, dopo questa velata accusa di presunzione, gli
ho risposto: «Sa’ che vuo’ fà, fanne ’a mmità ca iammo buono ’o stesso!».
Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2004 - Il Tempo
Non ho ancora finito di assaporare il
piacere che ne è venuto dalla pubblicazione della “Nferta p’ ’o Capodanno d’ ’o
2003”, dai consensi e dalle attestazioni di affetto degli amici che l’hanno
ricevuta, che già il nuovo anno bussa alle porte.
Inevitabilmente sono portato a
considerare la rapidità con cui è passato ed a tracciarne un improbabile
bilancio.
Ma
la domanda che più frequentemente mi torna in mente è: «Questo tempo è stato
ben speso? E’ stato da me impiegato con la dovuta diligenza?»
Molti
e nobili sono stati gli slanci di entusiasmo e molti gli impegni che ho
assolto, ma il dubbio e l’incertezza di aver sprecato una parte di questo tempo
prezioso non mi abbandona mai.
“Impegnamoci:
- scrive Seneca - solo in questo modo la vita sarà un bene; altrimenti è
solo un inerte attardarsi, e vergognoso anche, se ci si attarda tra infamie e
ignobili intenti. Cerchiamo dunque che ogni momento ci appartenga: ma non sarà
possibile, se, prima, non cominceremo noi ad appartenere a noi stessi.”
Buona
parte del mio tempo trascorso è racchiuso in questo libriccino, che ha, come
filo conduttore, appunto il Tempo.
E
sicuramente, tra gli impegni che ritengo di aver assolto, rientra la riproposta
di questo tipo di pubblicazione che rinnova la tradizione delle Nferte.
Create da Don Giulio Genoino nel 1834, furono pubblicate per molti anni in
occasione della festività di capodanno, e una volta anche a Pasqua, come
strenna per i suoi lettori e nelle quali raccoglieva i dialoghi, le prose, le
poesie, le canzoni, i duetti, addirittura una commedia e altre stramberie che
pubblicava durante l’anno sui vari giornali.
“Nconseguenzia
– scriveva il Genoino - ste ppovere crejature songo jute sperte e
ddemerte, senz’avé no muorzo de casa propeta pe se nce arrecettà tutte aunite,
e mmo stanno a rriseco de morì de morte gnagnolla.”
Alla
stessa stregua anch’io ho voluto raccogliere in questa Nferta alcune
composizioni che non avrebbero trovato la giusta collocazione in un altro
volume.
Dalla riscrittura della poesia ”Alla sua amante ritrosa” di Andrew Marvell, poeta metafisico inglese vissuto nel 1600, alla traduzione, a llengua nosta, della Lettera I a Lucilio di L. A. Seneca. Il volumetto si completa con la poesia ’O tiempo tratta dal mio libro ’A strata d’ ’e stelle e con altri quattro componimenti inediti.
Dalla riscrittura della poesia ”Alla sua amante ritrosa” di Andrew Marvell, poeta metafisico inglese vissuto nel 1600, alla traduzione, a llengua nosta, della Lettera I a Lucilio di L. A. Seneca. Il volumetto si completa con la poesia ’O tiempo tratta dal mio libro ’A strata d’ ’e stelle e con altri quattro componimenti inediti.
Allora, nun perdimmo cchiù tiempo e
ghiammo a leggere ’sta Nferta.
Dicembre 2003
Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2005 - Il Destino
Evidentemente
era destino che io dovessi riprendere e quindi perpetuare la tradizionale
pubblicazone della Nferta.
Qualche amico già si informa quando
sarà pronta. E siamo appena alla fine dell’estate. Chi, come me, si diletta a scarabocchiare
fogli di carta, lo sa bene come è difficile oggi pubblicare, anche un solo rigo,
senza il sostegno di un editore. Ma stimo sufficiente il patrocinio morale
degli amici.
Il Destino! Il più potente di tutti
gli dei, a cominciare da Giove che gli era sottomesso, tanto che il saggio
Pittaco, annoverato tra i sette sapienti, soleva dire che neppure gli dei
combattono contro il Destino.
Personificazione
della forza ineluttabile delle cose, figlio della Notte e del Caos,
imperturbabile nel suo divenire, nessuno aveva il potere di mutare ciò ch’esso
aveva deciso. Tutto era sotto il suo dominio, non solo gli dei, ma anche il cielo,
la terra, il mare, il mondo sotterraneo e lo stesso inferno.
Gli
antichi filosofi lo immaginavano cieco, giacché cieco è il Destino. Ed era raffigurato
come un vecchio venerabile, coronato di stelle, coi piedi poggiati sul globo
della Terra, reggendo nelle mani un’urna che racchiudeva la sorte dei mortali.
Ma
la concezione del Destino non deve intendersi come l’arrendevole accettazione
di un barbaro fatalismo che uccide nell’anima ogni virtù di combattimento nella
vita, quanto piuttosto di un’alta legge recondita, a cui la coscienza dell’uomo
forte può andare incontro serena, non senza speranza di avviarla a miglior
fine.
Giustamente
il filosofo Seneca sentenziava: “il destino guida chi lo segue di buona voglia,
trascina chi si ribella.”
Ed
è con buona voglia che anch’io mi faccio guidare dal destino in questa avventura
giunta già al terzo anno.
Questa Nferta, composta da 8
poesie di cui 4 inedite, è come una pianticella che diventa ogni anno più
robusta. Mi ritornano in mente i versi del poeta E.A. Maro: n’albero piccerillo
aggio piantato…
E grande è la mia felicità nel vedere
che questa pianticella sta diventando un piccolo alberello, n’albero
piccerillo, magari un ulivo.
E, caso vuole, che in questa stessa canzone il poeta, riferendosi al suo amore non corrisposto, canti: forse sta ncielo destinato e scritto… concludendo felicemente, scevro da ogni preoccupazione per il compiersi degli eventi, certo di non avere nulla da temere dal destino: «Nun se cumanna ’o core.» E i’ me sto zitto…
Non è forse vero che ogni impedimento
è giovamento? Ed allora io pure me sto zitto, aggiungo solamente: buon anno
a tutti.
Dicembre 2004
Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2006 - Le Mani
Ho sempre pensato che la mano fosse uno
strumento meraviglioso, avendo la duplice funzione dell’azione e la capacità, incredibile,
di comunicare pensieri e sentimenti.
Più che gli occhi, la mano è la vera
anima delle persone. Essa ne rivela l’indole, il carattere e la natura: mani
affusolate, candide, ben curate, tenere e armoniose non possono che appartenere
ad una persona gentile e generosa. Ruvide e nodose, invece, sono le mani dei
contadini. Gracili e delicate le mani degli anziani genitori, consumate per le
tante carezze profuse a figli e nipoti.
Il linguaggio dei gesti ha sempre avuto
una grande importanza, soprattutto per i napoletani, poiché associato al linguaggio
verbale, serve per rafforzare alcune espressioni o per meglio esprimere taluni
concetti. Chi è che non riesce a capire una conversazione fatta da due persone
di cui non si riesce a sentire le parole?
Ma, ancor meglio, la mano esprime
sentimenti, emozioni, stati d’animo. Le mani parlano. Quante frasi o parole
racchiude la carezza che una mamma fa al suo bambino? Un gesto antico e magico,
che riporta al primo contatto con il corpo materno. Imporre la mano significa
benedire e conferire la propria forza ad un’altra persona. La carezza è il
linguaggio degli innamorati nei dolci momenti di intimità, quando viene
spontaneo sfiorarsi, toccarsi e percepire sotto la mano la risposta della
pelle. Una carezza serve a calmare l’agitazione di una arrabbiatura; a rassicurare l’amico preoccupato; ad
incoraggiare il pavido.
Gesti semplici di tal genere costituiscono
evidentemente il patrimonio originario dell’umanità.
Nel suo insieme la mano dell’uomo è una
brillante ed inimitabile opera di ingegneria. Attraverso la precisione delle
dita i non vedenti hanno imparato a leggere e, addirittura, per la elevata
sensibilità tattile, ad ascoltare la musica.
Il filosofo Immanuel Kant ha definito la
mano “la parte visibile del cervello”.
In alcune filosofie orientali la mano è
considerata come un universo in miniatura che rappresenta completamente il
sistema cosmico. Già Aristotele aveva scritto che “le linee non sono state tracciate senza ragione nelle mani degli
uomini... Esse derivano dall’influenza del Cielo e definiscono la nostra individualità”.
Due mani innalzate verso l’alto esprimono
implorazione; le mani tese verso un’altra persona invitano all’abbraccio; rivolte
verso il basso alla calma; le mani congiunte alla preghiera. Ed espliciti sono
i modi di dire come: « Essere in buone mani », « lavarsene le mani ».
Ma come ogni strumento meraviglioso è
importante l’uso che se ne fa. Poiché le mani possono avere più significati e
valenze, positive ma anche negative. Le mani possono offendere; possono produrre
violenza; possono uccidere. Allora è bene « non sporcarsi le mani ».
Esse ci nutrono, ci vestono, ci consolano;
per tutte le opere dell’uomo bisogna ringraziare le mani.
Questa Nferta, giunta ormai al quarto anno di pubblicazione, contiene otto poesie dedicate alle mani ed ai
sentimenti e le passioni che esse evocano. Ed è così, stringendovi idealmente
le mani in segno di amicizia, che voglio augurare a tutti voi un felice anno
nuovo.
Dicembre 2005
Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2007 - Il Presepio
Ricordo,
quand’ero bambino, che all’approssimarsi del Natale casa mia diventava un vero
e proprio cantiere: legno, sughero, cartone, colla di pesce e qunt’altro
serviva per la costruzione del presepio. Certe volte, per realizzare tutte le
scene previste e sistemare i vari personaggi, mio padre requisiva addirittura
un’intera stanza poiché il consueto spazio non era, ahimé, sufficiente per
contenere quanto la sua fantasia stava progettando. E allora tutti a spostare i
mobili o a trovare la sistemazione a chi in quella stanza ci dormiva.
Visto con gli occhi del bambino che ero, tutto quanto
mi sembrava l’inizio di un meraviglioso viaggio. Quando l’opera, infine, era
compiuta, sembravo quel personaggio che sul presepio è denominato il pastore della meraviglia, poiché è
rappresentato in estatica adorazione. Il suo posto è di fronte alla grotta, in
ginocchio e con le braccia aperte, estasiato dal compiersi del prodigio.
Ma a chi è che non piace il presepio?
Anche l’eduardiano Nennillo, figlio
di Luca Cupiello, alla fine è costretto ad ammettere che il presepio gli piace,
poiché niente, meglio di quello napoletano, ricco di scenografie e di personaggi,
riesce a rappresentare tutta la magia del Natale e della Natività.
I
pastori, semplici e poetiche
figurine di terracotta, ora attingendo alle Sacre Scritture ora ai Vangeli
apocrifi, incarnano, nelle loro colorate scene, una serie di simbolismi nei
quali si possono identificare il bene e il male.
Rivedo ancora, in lontananza, arrivare
i Re Magi in groppa ai cammelli o a
meravigliosi cavalli che, partendo da Oriente, rappresentano il viaggio del
sole nella notte che si compie con la nascita del Sole / Bambino. Essi sono
guidati da una Stella che raffigura
il cammino per giungere alla verità.
La Lavandaia, testimone, come levatrice, al parto della Madonna, figura
purificatrice, poiché i panni puliti sono la metafora della cancellazione del
peccato. La donna col bambino,
simbolo della maternità e della vita. La Zingara,
il Cacciatore, il pastore dormiente,
meglio conosciuto come Benino, a cui
gli Angeli in sonno danno l’Annunzio della nascita di Gesù. E ancora ’O chiammatore, che con la mano alla
bocca a mo’ di megafono, annuncia la nascita del Bambino. E l’Asinello, dall’intellegente umiltà e il Bue, forte e paziente, a rappresentare
le doti del vero cristiano.
L’Oste, col tovagliolo sul braccio, sull’uscio della taverna / antro,
oscuro simbolo di perdizione, e l’inquietante e cruento Macellaio con il coltellaccio alzato pronto a colpire, a cui
vengono associate leggende che rimandano ad un mondo maligno. E poi il Barbiere, l’Ubriaco, ed un campionario di figure negative, o demoniache, tutti
raffigurati come mostri del buio e dell’inconscio.
Gesù nasce in una mangiatoia, da cui
il nome presepio. Dice Sant’Agostino
che Gesù Cristo nascendo volle essere posto nella mangiatoia, dove trovano il
pasto gli animali, per darci ad intendere che Egli si è fatto uomo anche per
rendersi cibo nostro.
In questa Sacra rappresentazione,
piena di anacronismi e di paradossi, dove il bene e il male coesistono, non è
difficile intravedere la stessa Napoli: le case una sull’altra, le osterie, il
paesaggio, ed i personaggi così vari e così contraddittori che altri non sono
se non il popolo napoletano. Come immancabile è sulla scena che fa da sfondo al
presepio, il Vesuvio in lontananza che domina la città. Ed è forse proprio per
questo che il presepio ci piace: perché in questo coacervo di contraddizioni alla
fine del viaggio si compie il prodigio.
Buon Natale a tutti.
Dicembre 2006
Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2008 - La Scrittura
Con
l’avvento dei computer sembra che la scrittura, quella manuale, stia completamente
scomparendo. Nessuno più lascia traccia della sua calligrafia. Eppure i grafologi,
attraverso il “tracciato” di un rigo scritto a penna, sono in grado di capire
la personalità di una persona.
Quella
di comunicare per l’uomo è stata una delle prime necessità e l’idea di servirsi
di segni per rappresentare il proprio pensiero è stata sicuramente una delle
invenzioni più geniali dell’umanità.
Dai
graffiti preistorici realizzati sulle pareti di caverne e grotte, i simboli ideografici che
rappresentavano concetti, nel corso di circa cinquemila anni, si sono
trasformati, via via, in simboli fonetici che rappresentano suoni, fino a
giungere alla scrittura dei giorni nostri.
L’uomo, sempre più affascinato dagli intrecci bizzarri
delle linee e dei segni, incominciò a porre attenzione a ciò che scriveva e
come lo scriveva creando, nel corso dei secoli, delle regole di bellezza e di
armonia che governassero la forma delle lettere.
Ma, come dicevamo, la tecnologia (e la diffusione di
computer in ogni dove) ha fatto sì che la penna quasi non si usi più.
Eppure, chi è che di fronte ad una vecchia lettera
vergata a mano non prova un poco di emozione nel tentativo fantastico di
immaginare la persona che l’ha scritta! Chi è che vedendo una pagina autografa
di un grande scrittore non cerchi di immaginarlo al proprio tavolo di lavoro
mentre si specchia in un candido foglio bianco.
L’andamento del rigo, verso destra o verso sinistra,
ci fa immaginare l’abituale atteggiamento del suo corpo. La pressione esercitata
sul foglio, quel solco talvolta pesante, talvolta invisibile, la sua volontà di
imporsi e di affermarsi. E la grandezza delle lettere, la rappresentazione del
senso dell’Io.
È nella scrittura che vengono proiettati gli ideali, la
fantasia, le aspirazioni, la coscienza, l’intelligenza, gli istinti, la
sessualità.
La chiarezza delle lettere è indice di chiarezza di
idee, di correttezza nell’azione. L’andatura, sciolta o veloce, rigida o morbida,
regolare o sicura, simboleggia i vari atteggiamenti di aggressività, di difesa,
di adattamento, di disponibilità, di ribellione. Insomma, potremmo concludere
dicendo: «mostrami come scrivi e ti dirò chi sei. »
Tutti i computer del mondo scrivono allo stesso modo.
Ma io rifiuto l’idea che milioni di
persone siano come tanti robot incantati dal magico “schermo delle mie brame”.
L’omologazione, l’alienazione, ci conducono alla deriva di una società
appiattita, senza più personalità.
Ancora oggi, quando mi frulla un’idea per la testa, mi
piace appuntarmela su un pezzetto di carta, sul lembo di un tovagliolo del bar,
sul biglietto del tram. La penna corre veloce sul foglietto, sembra affannare
mentre rincorre il mio pensiero che detta velocemente.
Mi piace l’idea di lasciare un tracciato della mia
scrittura. Una scrittura spontanea, di chi scrive per sé stesso, senza porsi il
problema della leggibilità o della presentazione formale. Certo non è
attraverso la scrittura che l’individuo rivela la propria anima, ma sicuramente
ci mostra la sua posizione nei confronti del mondo in cui vive. Sarà una nuova
opportunità per fare conoscenza.
Felice anno nuovo.
Dicembre 2007
Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2009 - La luna
Da
tempo immemorabile la luna ha alimentato una quantità impressionante di culti,
di credenze e di pratiche magico - religiose.
Più del sole,
sicuramente, la luna ci invita a ragionare sulla perfezione del firmamento,
sull’armonia del creato e sull’esistenza dell’uomo. Forse perché la luna,
contrariamente al sole, si lascia ammirare, si lascia contemplare.
La
luna è riservata, suscita emozioni, procura un senso di rapimento, provoca
malinconia. Ma dona anche un senso di pace, di serenità, di confidente
complicità.
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, /
silenziosa luna? Così, il grande poeta di Recanati si interroga nel mentre
ammira l’astro d’argento durante le sue lunghe notti solitarie d’in su i veroni del paterno ostello.
Contemplazioni dolorose, un vano e pur dolce ragionare, pieno di domande senza
risposta. Domande che, ancor’oggi, si pone l’uomo moderno: chi sono, perché
sono, qual è la ragione della mia vita e quella dell’universo.
La
luna, bella e infinitamente lontana, è l’immagine della natura, che sembra
suggerirci una promessa d’infinito, di felicità, evocata dalla sua sublime bellezza,
e, d’altra parte, impassibile osservatrice del nostro destino effimero e doloroso.
La
luna è affascinante per la sua rotondità, per il mutare della forma, per il
crescere e decrescere, per la sua ciclicità che richiama il tempo che scorre e
l’esistenza stessa. Essa rende visibile il perpetuo ricominciare, la catena
ininterrotta delle nascite, delle morti e delle rinascite. Ogni mese lunare,
per tre notti, essa sparisce per “rinascere” poi ancora più splendente.
È
la metafora della conoscenza, poiché brilla di notte e la sua luce discreta,
opposta alla brutale luce del sole che illumina il mondo delle apparenze, rischiara
le tenebre.
La
luna è collegata alla donna, alla femminilità. Immagine della Mater Magna, evoca la madre in tutte le
sue funzioni, associazione simbolica legata ai cicli mestruali che hanno un
andamento che richiama quelli lunari. Il corpo della donna offre così una
visione microcosmica dei ritmi universali e ciò spiega perché la luna è il
simbolo della fecondità e della maternità.
La
luna, poi, è, per antonomasia, l’astro degli innamorati: placido, affascinante,
che sa, all’occorrenza, attenuare la propria luminosità con una nuvola; è colei
a cui il sole, come recita il Principe della risata in una sua poesia, nel
lasciarle ’a cunzegna p’ ’a nuttata / lle
dice dinto ’a recchia: « I’ vaco a’ casa: / t’arraccumanno tutt’ ’e nnammurate ».
Buon
Anno.
Napoli, dicembre 2008
Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2010 - La rosa
La rosa,
coltivata fin dalla notte dei tempi, è per gli occidentali quello che il loto è
per gli orientali: insieme di spiritualità e di terreno, la manifestazione di ciò che si eleva e sboccia al di sopra delle
mediocrità. Designa la perfezione assoluta. È emblema di eleganza, di bellezza
e di fragilità.
La sua
contemplazione evoca, secondo la nostra condizione spirituale, tanti e diversi
simboli: primo fra tutti, ispirato dalla sua breve durata, la caducità della
vita, come scrive nel IV secolo il poeta latino Decimo Magno Ausonio: Un unico giorno abbraccia la vita della rosa.
È il fiore
più cantato dai poeti e nominato dagli
antichi scrittori. Nel Vecchio Testamento, si parla di rose, nel Catico dei
Cantici si cita la rosa di Saron, Omero ci dice che Aurora, la dea del mattino,
con "dita di rosa" colora il mondo ad ogni alba. Saffo, Catullo,
Anacreonte, Virgilio, Ovidio ed Ippocrate erano stregati dal suo fascino. Ispirandosi
alla sua immagine, i poeti del Medioevo hanno scritto innumerevoli poesie sulla
fuggevole bellezza femminile. Dante paragona l’amore paradisiaco al centro di
una rosa.
È uno dei
simboli privilegiati dell’amore in letteratura e nella poesia: essa incarna sia
la profondità dei sentimenti, la foga della passione, la dolcezza dell’affetto (per
il colore e la consistenza vellutata dei petali), sia la sofferenza amorosa, le
pene del cuore, la malinconia (le spine).
Il valore
simbolico delle rose risale al mito di Adone. Inizialmente tutte le rose erano
bianche. Venere si era follemente innamorata di Adone. Marte, amante della dea,
ingelosito si trasformò in cinghiale e uccise Adone il cui sangue, per volere
di Venere, colorò le pallide rose di un bel rosso vermiglio.
Nelle feste di
Dioniso, il dio dell’ebbrezza, gli antichi greci erano soliti coronarsi di
rose, poiché si credeva che esse avessero la virtù di calmare i bollori del
vino e aiutassero gli ubriachi a non rivelare i loro segreti. Anche per questo
motivo la rosa divenne poi il simbolo della riservatezza, e utilizzata per ornare i confessionali con la scritta Sub rose, sotto il sigillo del silenzio
e della discrezione.
Nell’arte
religiosa, come si può vedere soprattutto negli innumerevoli rosoni nelle
vetrate e nelle pareti delle chiese e delle cattedrali, la rosa esprime il
silenzio, il raccoglimento e la pace interiore che presiede all’incontro con
Dio.
La festa delle
rose o Rosalia rientra nel culto dei morti degli antichi Romani, ed è già
testimoniata a partire dal sec.I d.C.. Tale costume è ancora presente in alcune
regioni d’Italia, dove la domenica di Pentecoste viene chiamata « Pasqua delle
rose ».
Nella simbologia
cristiana la rosa rossa è il simbolo del sangue versato dal Crocifisso. La
connessione tra la croce e la rosa costituisce l’ordine iniziatico della setta
esoterica dei Rosa-Croce.
Ancora molti e
significativi sono i simboli rinconducibili alla rosa, ma mi piace concludere
questa dissertazione sulla rosa con alcune righe tratte dal Piccolo Principe di
Saint-Exupéry: « Gli uomini coltivano cinquemila rose nello stesso giardino...
e non trovano quello che cercano. E tuttavia quello che cercano potrebbe essere
trovato in una sola rosa. Ma gli occhi sono ciechi. Bisogna cercare col cuore.
»
Se son rose
fioriranno.
Napoli, dicembre 2009
Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2011 - Il vino
“Chiunque abbia avuto
un rimorso da placare, un ricordo da evocare, un dolore da annegare, o abbia
fatto castelli in aria, tutti hanno finito per invocarti, o dio misterioso
celato nelle fibre della vite.” Così Baudelaire celebra il vino nel libro Paradisi
artificiali.
Ed
il nettare degli dei, nel suo linguaggio arcano, sembra cantare: “scenderò nel tuo petto, come un’ambrosia
vegetale. Sarò il grano che feconda il solco scavato con dolore. La nostra
intima unione creerà la poesia. Noi due, insieme, saremo un dio e volteggeremo
verso l’infinito, come gli uccelli, le farfalle, i fili di ragno, i profumi e
tutte le cose alate.”
Perché
il vino è il mezzo più sano e sociale che l’uomo usa per esaltare la propria
personalità, per animare le sue speranze ed elevarsi verso l’infinito.
Il vino è presente
nelle abitudini degli uomini da almeno quattromila anni, dai Sumeri fino ai
nostri giorni. E fin da quando il primo uomo alzò una coppa ricolma di vino
verso l’alto, fu pronunciato il primo brindisi.
Il
vino, bevuto nell’ambito di un rituale, rappresenta una «bevanda spirituale»,
perfino divina, piena di fuoco vitale. Nell’antichità determinava l’unione con
Dioniso, la divinità dell’ebbrezza; il viatico necessario per spezzare ogni
incantesimo, smascherare le bugie. “Un
uomo che beve soltanto acqua - scrive ancora Baudelaire - ha un segreto da nascondere ai propri
simili.”
Il
bere insieme come momento di comunione. Il simposio, quindi, dal greco syn+pìnein,
bere insieme, ha una indiscussa componente di sacralità; bere significa, in
questo contesto, circondarsi di un’atmosfera magica. Il vino è esso stesso
divinità. Chi brinda insieme crea una comunità dalla quale sono esclusi i
malvagi.
Alle
feste non doveva mai mancare il vino. Il primo miracolo di Gesù, durante le
nozze di Cana, fu la trasformazione dell’acqua in vino. E spesso, il vino, è
usato come rapporto simbolico con il sangue, e non soltanto nel sacramento
cristiano.
Un
suo eccessivo consumo altera il suo potere in forma negativa ma, se bevuto con
consapevolezza, favorisce, con i suoi effetti inebrianti, l’allegria e il
buonumore; forza dello spirito, vince il peso della terra e mette le ali alla
fantasia. Facilita il rapporto di confidenza che si viene a creare tra persone
sconosciute e, al tempo stesso, rende più duratura una vecchia amicizia.
Ed
è in nome dell’amicizia che quest’anno voglio brindare al nuovo che arriva, sollevando
insieme a voi un immaginario calice di vino nella speranza che l’augurio formulato
vada a buon fine.
Naturalmente
il brindisi è onorato solo quando l’invitato vuota completamente il bicchiere,
poiché come dice Nicola Vottiero nel suo Calateo napolitano (1789) “Chille
che beveno pure hanno d’avé crianza. Chi
è nvetato a bevere e resta lo vino dinto a lo bicchiero, fa mala crianza.”
Addó
và!
Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2012 - Il volo / Gli uccelli
Un
proverbio cinese dice che non basta avere le ali per volare. Parafrasando, si
potrebbe dire che per volare non è necessario averle. Perché nella interiore
recondita aspirazione dell’uomo, volare è come uscire, fuggire da un luogo
chiuso e inospitale, addentrarsi nell’universo, raggiungere il cielo nel senso
metafisico.
Ecco perché nella fantasia umana si
sono, sin dalle età più remote, raffigurati alati gli esseri sovrannaturali.
Fatta eccezione per alcune figure
negative del mondo antico, come i geni dell’aria, le fate o le arpie, mostruose
creature con viso di donna e corpo d’uccello, il significato popolare
attribuito alle ali è positivo e si collega all’idea della leggerezza,
dell’innalzamento, dell’elevazione. E tutte le creature che si avvicinano al
cielo per mezzo delle loro ali, non sono altro che l’incarnazione del desiderio
umano di staccarsi dal peso della vita terrena e di raggiungere sfere più
elevate, al di sopra delle miserie umane.
« Invòlati lonatano da questi miasmi ammorbanti, - scrive Baudelaire
rivolgendosi al proprio spirito - sali a
purificarti nell’aria superiore, / e bevi, come un puro e divino liquore, / il
fuoco radioso degli spazi limpidi ».
Le immagini più emblematiche della
mitologia sono alate: da Ermes, il veloce messaggero degli Dei, raffigurato coi
calzari alati, ad Eros, il piccolo dio dell’amore.
Il mitico Icaro, simbolo del
desiderio di elevazione, dell’eroe in cerca dell’assoluto e della verità, il
quale, precipitato in mare per essersi avvicinato con le sue ali di cera troppo
al sole, simboleggia anche l’ammonimento all’uomo a non insuperbirsi, a non
fare cose superiori alle proprie capacità, a rispettare i limiti.
Tutte le figure simboliche della
Vittoria sono alate. Basti ricordare quella meravigliosa di Samotracia, che rappresenta
Nike, la giovane dea alata figlia di Zeus che porta l’annuncio delle vittorie
militari, mentre si posa sulla prua di una nave da battaglia.
Col Cristianesimo, le ali diventano
simboli della Fede. Ed ecco gli Arcangeli dalle grandi ali aperte che
raffigurano la vittoria del bene sul male.
Simbolicamente l’ala non vuole
rappresentare una persona capace di volare in senso fisico, quanto piuttosto di
sapersi sollevare dal peso dell’esistenza.
Prima di qualunque altro essere
alato, gli uccelli rappresentano l’anima umana nella sua natura aerea, nella
sua fluidità e nella sua levità. Essi, grazie al volo, trascendono il tempo e
lo ricongiungono all’eternità.
Nell’antica Roma il volo degli
uccelli era oggetto di interpretazione da parte dei sacerdoti per conoscere la
volontà degli dei e predire il futuro.
Santa Ildegarda di Bingen, scrittrice,
musicista, guaritrice, filosofa e poetessa vissuta nel XII secolo, scrisse a
tal proposito: « Gli uccelli simboleggiano
la forza che ispira agli uomini discorsi saggi e che permette loro di poter
prevedere molte cose prima che si realizzino splendidamente. Come gli uccelli
vengono innalzati dalle loro piume e si muovono ovunque nell’aria, così nel
corpo l’anima viene sollevata attraverso il pensiero e si estende ovunque
».
Gli uccelli sono in possesso della
conoscenza e comprendere il loro linguaggio è segno di saggezza. Per questo
Salomone, personificazione del saggio, comprendeva il loro linguaggio e, per lo
stesso motivo, San Francesco predicava agli uccelli. Essi sono dunque gli intermediari
privilegiati tra gli uomini e gli dei, tra la terra e il cielo, tra il basso e
l’alto.
Narra una leggenda medievale che un giorno un monaco
chiese al Signore di concedergli una grande gioia. Così, mentre era intento a
pregare, gli si presentò un angelo sotto forma di uccello. Nel tentativo di
catturarlo, il monaco lo inseguì fuori dal monastero fino ad un albero dove
l’uccello si posò e si mise a cinguettare suoni melodiosi e dolcissimi. Immerso
in quei canti paradisiaci, il monaco dimenticò lo scorrere del tempo. Quando
tornò al convento, nessuno lo riconobbe, neppure il custode. E quando chiese
dell’abate gli fu risposto che era morto trecento anni prima. Il monaco coprese
allora di aver ascoltato il canto dell’uccello per tre secoli.
Scrive Victor Hugo: « Siate
come l’uccello, posato per un istante / su rami troppo fragili, / che sente
piegarsi la fronda e canta tuttavia, / sapendo d’aver ali! ».
Napoli,
dicembre 2011
Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2013 - Il bacio
«
Ma poi che cos’è un bacio? Un giuramento fatto poco più da presso, un più
preciso patto, una confessione che sigillar si vuole, un apostrofo rosa messo
tra le parole “T’amo”; un segreto detto sulla bocca, un istante d’infinito che
ha il fruscio d’un’ape tra le piante, una comunione che ha gusto di fiore, un
mezzo di potersi respirare un po’ il cuore e assaporarsi l’anima a fior di
labbra ». Così descrive il bacio Cyrano de Bergerac nell’omonima opera di
Edmond Rostand.
Il bacio trae origine dalla credenza
che l’anima umana stesse nel respiro e così, attraverso di esso, confondendo i
due fiati si accordassero le anime degli amanti: assaporarsi l’anima a fior di labbra.
Nel medio evo, i monaci, non avendo
granché da fare, classificarono tutti i tipi di bacio e convenirono che esso
poteva avere ben quindici significati: da quello di adorazione a quello di
infamia, da quello di Giuda a quello di Paolo e Francesca; ed a seconda se esso
viene dato sulle gote, sulla fronte o sulle mani, rappresenta, la benedizione,
il rispetto, la fedeltà, l’amicizia, la promessa e così via. Ma in tutti questi
casi il bacio è unilaterale, nel senso che c’è chi lo dona e chi lo riceve. C’è
un solo bacio che possiamo definire reciproco: quello che si scambiano gli
amanti sulla bocca. Quello che esprime lo scambio dei sentimenti, la
manifestazione dell’amore, la scintilla che accende il desiderio.
Voltaire, parlando del bacio, dice
che l’uomo e alcuni uccelli sono i soli animali che conoscono questo mezzo per
testimoniare i loro sentimenti più teneri. Non è da escludere che il bacio sia
la lenta trasformazione di un atto puramente materno, quello dell’imboccamento
che si vede comunemente negli uccelli, per cui esso fu prima amorevole e poi
erotico. Altri, invece, vogliono che il bacio sia la continuazione del gesto
infantile della suzione, l’istinto del lattante di suggere dalla mammella.
Ma come baciavano i nostri
progenitori? L’uomo preistorico fu senza dubbio un selvaggio, rude, brutale, poco
intelligente; quindi anche il suo bacio non doveva essere che l’espressione di
un’indole selvaggia, primitiva: cioè nient’altro che un morso non molto
dissimile da quello che tuttora gli animali si scambiano durante gli
accoppiamenti. Infatti, magnarse a uno ’e
vase, vuol dire baciarlo avidamente, coprirlo di baci, che è proprio delle
mamme quando baciano i loro figli.
Certo, gradualmente, a poco a poco,
il bacio dovette ingentilirsi ed evolversi dalla sua primitiva violenza
fino divenire quello che è per noi ora.
Ma qualunque sia l’origine, è evidente constatare come il bacio sia da tempo
divenuto una consuetudine cortese, una manifestazione raffinata, un’espressione
dolcissima e quasi una necessità spirituale. L’atto d’amore più comune nella
vita!
Non si può parlare del bacio senza
che il pensiero ricorra subito alla bocca. E, appunto, in greco « baciare »
vien detto « amare con la bocca ». E nei baci d’amore, quelli cioè che
maggiormente ci interessano, il desiderio, l’intensità, la dolcezza, sono ispirati
non solo dal trasporto, ma anche dalla bellezza di una bocca invitante.
Resta innegabile che i baci più
belli sono quelli che si danno con parsimonia, che si conquistano
faticosamente, perché sono i più preziosi... quelli che si assaporano e si gustano
con lentezza e compiacimento. Lo scrittore francese Claude Joseph Dorat in una
sua opera dice alla sua Taide: “Promettimi
nove baci... dammene otto, e lascia che lotti per il nono.”
Napoli,
dicembre 2012
Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2014 - Gli angeli
Narra la Bibbia che nel sesto mese,
l’arcangelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea chiamata
Nazaret, a una vergine promessa sposa di un uomo chiamato Giuseppe. La vergine
si chiamava Maria. Entrando da lei disse: « Ti
saluto, o piena di grazia, il Signore è con te ».
Gli angeli sono i messaggeri di Dio
e la personificazione della sua volontà. Sono l’idea di entità intermedie tra
la dimensione umana e quella divina, l’ideale ponte tra il cielo e la terra. Superiori
all’uomo per saggezza, potenza e scienza, sono rappresentati come figure umane vestite
di bianco, alate e coronate di aureola. In mano hanno la bacchetta del
messaggero, o la spada fiammeggiante per combattere il maligno, o la tromba per
annunciare il Giudizio Univarsale. Nel XII secolo gli angeli vengono
raffigurati simbolicamente con teste alate, indice di « incorporeità » che
trova la sua massima espressione nei putti dell’arte barocca.
E come non ricordare i sette
Arcangeli che stanno al fianco di Dio; i Cherubini, leoni alati con la testa
umana, tutori della conoscenza divina, che con le loro spade di fuoco proteggono
e custodiscono le porte del Paradiso e l’Arca dell’Alleanza; e gli “ardenti” Serafini, personificazione
della luce e della purificazione, che circondano, volteggiando con le loro sei
ali, il trono di Dio cantandone le lodi. E dove il cielo si congiunge con la
terra, troviamo i Troni, assisi sui loro troni, esseri purissimi al di sopra di
ogni tentazione, i “facchini di Dio”,
che manifestano la sua giustizia “portando”
agli uomini i suoi insegnamenti.
L’angelo si oppone alla stupidaggine: “Essere un angelo” vuol dire agire con
prudenza e assennatezza. Ed è anche vicinissimo al meraviglioso, alla bellezza,
al fascino: “un viso d’angelo”.
Anche se la bibbia non fa che poche
allusioni agli angeli custodi, le credenze popolari, soprattutto dopo il XIX
secolo, riservano un posto importante a queste figure che hanno il compito di
guidare e di proteggere gli esserei umani.
Quanti bambini, la sera prima di
dormire, hanno rivolto la loro preghiera all’Angelo Custode? indicibili attimi
di pace, di tenerezza e di sicurezza che fugavano le ombre della notte.
E se l’Angelo non fosse altro che il
riverbero della nostra coscienza interiore, una percezione impalpabile della
nostra Anima? Un’entità che ci insegna e ci assiste sotto mentite spoglie? Sant’Agostino
dice: “La parola angelo designa l’ufficio
non la natura. Se si chiede il nome di questa natura si risponde che è spirito,
se si chiede l’ufficio si risponde che è angelo. È spirito per quello che è,
mentre per quello che compie è angelo.”
E allora gli angeli non sono solo
come ce li immaginiamo noi, non vivono solo in cielo. A volte penso che Dio con
alcuni abbia fatto un’eccezione, lasciandoli sulla terra. Suggestione
affascinante: chissà quanti ne abbiamo incontrati senza neppure saperlo e,
forse, senza che neppure loro sapessero di essere degli angeli.
Napoli,
dicembre 2013
Nferta p' 'o
Capodanno d' 'o 2015 - I bambini
In un passo del
« Fedone » di Platone, Cebes Tebano,
pensando alla morte di Socrate che stava per bere la cicuta, si mette a
piangere. Socrate lo rimprovera per quel pianto e Cebes si scusa dicendo che
non è lui che piange ma il fanciullino che è in lui.
Ispirandosi a
questo brano, il Pascoli aggiunge che « è dentro noi un fanciullino che non
solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che primo in sé lo scoperse, ma
lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli
confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e
contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si
sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo,
ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli
vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo
la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di
campanello. »
In tutti i miti
e le leggende, il bambino, simbolo di purezza e di semplicità, è contrapposto
all’uomo adulto che, invece, è corrotto e moralmente viziato. Egli incarna
l’origine, il futuro, l’aspettativa, la speranza. È ponendo fede nel bambino
che l’umanità progetta il futuro e idealmente realizza ciò che attualmente gli
riesce difficile.
La purezza del
bambino permette di vedere ciò che gli uomini ormai non riescono più a vedere.
La sua mano vergine si pensa sia guidata da Dio. Gli angeli stessi, sono
immaginati come bambini alati. Solo a loro è permesso di entrare in un universo
magico e meraviglioso. Scrive Angelo Silesio: « Se non diventi un bimbo, non
entrerai là dove sono i figli di Dio: la porta è troppo piccola ».
La credenza
popolare vuole che i bambini siano capaci di vedere gli angeli custodi che li
accompagnano, e con essi si intrattengono e si rallegrano. E nel sonno, quando
ridono, giocano con loro.
Il bambino
crede in Dio come crede nelle fate e nelle streghe; crede negli incantesimi e
ai boschi incantati; in ciò che si vede e in ciò che non si vede o che gli
adulti non vedono più. Ma ha discernimento e saggezza per distinguere il bene
dal male, i buoni dai cattivi. Egli è l’aspettativa dei genitori, della società
che investe su di lui, e la perpetuazione della famiglia.
È la
spensieretazza, la voglia improvvisa e stravagante, il desiderio bizzarro,
l’irrazionalità e la personificazione dell’amore puro e disinteressato. Lo
stesso Cupido dei Romani, simbolo di giovinezza, è un bambino che con le sue
frecce ringiovanisce i cuori degli innamorati.
Napoli,
dicembre 2014
Forse nessuno,
meglio di Ugo Foscolo, ha saputo rappresentare liricamente il dualismo simbolico
della sera: il suo aspetto negativo dovuto all’opposizione alla luce al calar
delle tenebre, e quello positivo di riposo e di meditazione.
La sua attesa è
così suggestiva che, come scrive il poeta, « lo spirto guerrier » che ruggisce dentro ognuno di noi, si placa
difronte alla sua serenità e alla sua quiete.
È questo il
momento in cui si raccolgono i pensieri e si lasciano alle spalle tutte le
preoccupazioni della giornata. È l’ora in cui l’uomo si riconcilia con
l’esistenza mitigando il travaglio del vivere quotidiano.
La discesa
delle ombre notturne dona conforto e tranquillità all’animo umano dissipando le
inquietudini del giorno. Il silenzio offre interminabili attimi di godimento,
di dolcezza e di pace interiore.
Mentre tutto
dorme, l’uomo ritrova se stesso nella contemplazione della luna e delle stelle,
e nell’ammirazione della natura, soffermandosi a riflettere sul vero
significato dell’esistenza.
Nella mitologia
greco-romana, la dea Nyx, la notte, vestita di nero e con l’abito trapunto di
stelle, ha origine dal Caos e, unendosi al fratello Erebo, partorisce Etere
(l’aria) e Emera (il giorno luminoso). Ma suo figlio è anche Hypnos, il sonno.
Dunque la notte è la madre del sonno, dei sogni e dei piaceri amorosi. Le notti
erano spesso prolungate, a piacimento degli dei, che fermavano il sole e la
luna per meglio realizzare le loro imprese. Ma è anche madre della morte Thànatos,
la « fatal quiete »,
e di quel Caronte, traghettatore infernale, di dantesca memoria.
I sogni sono le
aspirazioni segrete degli uomini, i progetti non ancora realizzati, il futuro
visto attraverso la nebbia fumosa della indomita speranza. I sogni sono una
realtà parallela che si vive mentre si dorme. Sono i pensieri, i suoni, le voci
di un mondo onirico e irreale che ci rimanda il mondo tangibile.
I sogni sono i
posti conosciuti e visitati e i luoghi mai visti ma che si desidera visitare o
dai quali si desidera fuggire. A volte
richiamano piacevoli eventi, altre volte richiamano i nostri più oscuri
segreti, le paure e le fantasie più intime. Sono spaventosi o ricchi di
immagini felici.
È al calar
delle tenebre che il mondo rallenta, che la frenesia del vivere quotidiano
riporta le lancette del proprio orologio sullo scorrere lento e sereno del
dolce vivere.
Kahlil Gibran
ha scritto: « Per arrivare all’alba non
c’è altra via che la notte ». In fondo, è dalla notte che nasce il giorno.
Napoli,
dicembre 2015
Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2017 - Gli occhi
Si dice che gli
occhi sono lo specchio dell’anima, perché attraverso di essi si può riconoscere
l’indole di una persona, le qualità, il modo di essere. E in quanto organo
della percezione sensibile, sono anche simbolo della percezione intellettuale,
e quindi strumento della conoscenza. Molti riti iniziatici consistono
nell’apertura simbolica degli occhi, poiché essi sono l’accesso alla luce e
alla verità.
L’occhio è
simbolo della vigilanza, perciò è dipinto sulla prora dei vascelli dei
naviganti. La pupilla si trova spesso sui monumenti antichi ed è l’emblema di
Osiride, il Sole che, come scrisse Plutarco, getta lo sguardo su tutto il
mondo. Nei caratteri geroglifici l’occhio, preceduto da una linea ondulata,
significava ‘adorazione’. In tutte le tradizioni egizie, l’occhio è di natura
solare e ignea, fonte di luce, di conoscenza e di fecondità.
Nella
tradizione cristiana lo stesso Dio è rappresentato con un occhio, circondato
dai raggi del Sole o inserito in un triangolo con la punta rivolta verso l’alto,
simbolo dell’onnipotenza e dell’onniscienza divina.
anticamente, le
persone malvagie, o quelle dotate di poteri magici, possedevano occhi capaci di
pietrificare, di annullare o, almeno, contrastare il bene. Basti ricordare le
mitologiche Gorgoni che avevano il potere di pietrificare chiunque avesse
incrociato il loro sguardo.
La credenza
popolare ha individuato il presunto influsso negativo nell’ «occhio cattivo»
dello iettatore in grado di esercitare influssi malefici. Questo potere nefasto
non è altro che il malocchio o
occhiata cattiva, sguardo bieco che si può jettare,
ossia, sortilegio malefico che si può scagliare contro qualcuno e aspettare che
questa persona inaridisca lentamente, senza una causa apparente. La persona
capace di gettare il malocchio si dice che tene
ll’uocchie sicche.
L’errore, la
collera, la violenza, la gelosia, accecano e l’accecamento impedisce di
ragionare trasformando l’uomo razionale in una bestia irragionevole.
La cecità era
prerogativa della Forntuna poiché essa distribuiva i suoi benefici
indiscriminatamente, con gli occhi bendati. E ad occhi bendati veniva
rappresentata anche la Giustizia la quale doveva essere esercitata senza tenere
riguardo delle persone che giudicava.
Ma a volte il cieco
rappresenta la conoscenza interiore. La cecità è il simbolo della visione
interiore, della saggezza e della preveggenza. Nelle leggende e nei miti, i
‘veggenti’ sono spesso ciechi, a sottolineare la distinzione tra l’occhio
spirituale (interiore) e l’occhio fisico (organo di senso).
Nella poesia
elegiaca araba e persiana, l’occhio è associato con le sue numerose metafore alle
idee di magia, pericolo, ebbrezza. L’occhio della bella è detto ebbro ma non di vino. Dante in un noto
sonetto della Vita nuova, scrive: Ne li
occhi porta la mia donna Amore.
Claudio
Pennino
Napoli,
dicembre 2016
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