Nferte







Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2003 - La Nferta


       “Don Giulio Genoino cacciava ogne anno la Nferta, comme la cacciava lo Barone; e cheste erano le bannere de le Nferte, e lo spireto che nc’era dinto sarrìa vastato a resorzetà no muorto; co cheste se faceva annore a lo pajese, a lloro, a ll’amice, e sta povera lengua nosta, che cchiù d’uno lle carda spisso a uocchie de puorco la lana, avea trovato, comme la vite l’urmo, n’appuojo pe fare sfuorgio de lle bellezze soje. Se stette zitto lo Sio Barone; se nne morze, nzanetate nosta, Don Giulio; restaje vidulo lo Lavenaro, lo Pennino e Puorto de lle belle Muse che nce nzuccaravano, portannoce nzuocolo l’anema e lo cuorpo. […] Nferta no nne so’ asciute cchiù!… Che ll’è rumaso a la lengua nosta? De ntesechire a no pontone, comme ntesechesce na fegliola nchiusa int’a quatto mura, perzo c’ave chillo che lle voleva bene. Penzanno a chesto, tiennero de premmone comme sonco, mm’aggio ntiso spartere lo core, né mme fido cchiù de rejere a bedé morì de morte gnagnolla sta lengua cinciosa, aggraziata, speretosa, traseticcia, concettosa, e che nne faje nzo che se nne vole: onn’è, ca mm’aggio schiaffato ncapo de dà de mano io a na Nferta napolitana.”

      Queste parole furone scritte da Ferdinando Bottazzi, poeta napoletano del primo ’800, allorquando, nel 1859, diede alle stampe la “Nferta pe lo Capodanno de li Quatto de lo Muolo”. Il povero Don Ferdinando si rammaricava perché con la morte del Barone, alias Michele Zezza, e di Don Giulio Genoino, la pubblicazione delle Nferte era sensibilmente calata. E, preoccupato, si domandava se la nostra lingua era destinata ad appassire come appassisce una ragazza chiusa dentro quattro mura. Eppure, questa lingua, che il Bottazzi definisce “cianciosa, aggraziata, speretosa, traseticcia, concettosa e che nne faje nzo che se nne vole…” questa lingua, è ancora viva. Non tanto per il gran numero di persone che quotidianamente la parla, quanto per la capacità di veicolare sentimenti, emozioni, espressioni, letteratura e poesia di un intero popolo che la eleva al rango di lingua ufficiale.

        Nella scia di questa tradizione ormai scomparsa, e per un recupero della stessa, oltre che per propiziare gli auguri per il nuovo anno che sta arrivando in un modo diverso dalla solita cartolina, ho dato alle stampe questo volumetto che contiene 12 brevi componimenti, quanti sono i mesi dell’anno. Quattro appartengono alla mia prima pubblicazione Vela ’e penziere; quattro alla seconda ’A strata d’ ’e stelle, e quattro, infine, sono inediti.

       Le copie per gli amici ne dovevano essere 365 tante quanti i giorni dell’anno, ma il tipografo si è meravigliato: «Tenite tutte chist’amice?». Sicché, dopo questa velata accusa di presunzione, gli ho risposto: «Sa’ che vuo’ fà, fanne ’a mmità ca iammo buono ’o stesso!».

Dicembre 2002





Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2004 - Il Tempo



          Non ho ancora finito di assaporare il piacere che ne è venuto dalla pubblicazione della “Nferta p’ ’o Capodanno d’ ’o 2003”, dai consensi e dalle attestazioni di affetto degli amici che l’hanno ricevuta, che già il nuovo anno bussa alle porte.

           Inevitabilmente sono portato a considerare la rapidità con cui è passato ed a tracciarne un improbabile bilancio.

Ma la domanda che più frequentemente mi torna in mente è: «Questo tempo è stato ben speso? E’ stato da me impiegato con la dovuta diligenza?»

Molti e nobili sono stati gli slanci di entusiasmo e molti gli impegni che ho assolto, ma il dubbio e l’incertezza di aver sprecato una parte di questo tempo prezioso non mi abbandona mai.

“Impegnamoci: - scrive Seneca - solo in questo modo la vita sarà un bene; altrimenti è solo un inerte attardarsi, e vergognoso anche, se ci si attarda tra infamie e ignobili intenti. Cerchiamo dunque che ogni momento ci appartenga: ma non sarà possibile, se, prima, non cominceremo noi ad appartenere a noi stessi.”

Buona parte del mio tempo trascorso è racchiuso in questo libriccino, che ha, come filo conduttore, appunto il Tempo.

E sicuramente, tra gli impegni che ritengo di aver assolto, rientra la riproposta di questo tipo di pubblicazione che rinnova la tradizione delle Nferte. Create da Don Giulio Genoino nel 1834, furono pubblicate per molti anni in occasione della festività di capodanno, e una volta anche a Pasqua, come strenna per i suoi lettori e nelle quali raccoglieva i dialoghi, le prose, le poesie, le canzoni, i duetti, addirittura una commedia e altre stramberie che pubblicava durante l’anno sui vari giornali.

Nconseguenzia – scriveva il Genoino - ste ppovere crejature songo jute sperte e ddemerte, senz’avé no muorzo de casa propeta pe se nce arrecettà tutte aunite, e mmo stanno a rriseco de morì de morte gnagnolla.”

Alla stessa stregua anch’io ho voluto raccogliere in questa Nferta alcune composizioni che non avrebbero trovato la giusta collocazione in un altro volume.

      Dalla riscrittura della poesia ”Alla sua amante ritrosa” di Andrew Marvell, poeta metafisico inglese vissuto nel 1600, alla traduzione, a llengua nosta, della Lettera I a Lucilio di L. A. Seneca. Il volumetto si completa con la poesia ’O tiempo tratta dal mio libro ’A strata d’ ’e stelle e con altri quattro componimenti inediti.

            Allora, nun perdimmo cchiù tiempo e ghiammo a leggere ’sta Nferta.

Dicembre 2003





Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2005 - Il Destino



Evidentemente era destino che io dovessi riprendere e quindi perpetuare la tradizionale pubblicazone della Nferta.

      Qualche amico già si informa quando sarà pronta. E siamo appena alla fine dell’estate. Chi, come me, si diletta a scarabocchiare fogli di carta, lo sa bene come è difficile oggi pubblicare, anche un solo rigo, senza il sostegno di un editore. Ma stimo sufficiente il patrocinio morale degli amici.

            Il Destino! Il più potente di tutti gli dei, a cominciare da Giove che gli era sottomesso, tanto che il saggio Pittaco, annoverato tra i sette sapienti, soleva dire che neppure gli dei combattono contro il Destino.

Personificazione della forza ineluttabile delle cose, figlio della Notte e del Caos, imperturbabile nel suo divenire, nessuno aveva il potere di mutare ciò ch’esso aveva deciso. Tutto era sotto il suo dominio, non solo gli dei, ma anche il cielo, la terra, il mare, il mondo sotterraneo e lo stesso inferno.

Gli antichi filosofi lo immaginavano cieco, giacché cieco è il Destino. Ed era raffigurato come un vecchio venerabile, coronato di stelle, coi piedi poggiati sul globo della Terra, reggendo nelle mani un’urna che racchiudeva la sorte dei mortali.

Ma la concezione del Destino non deve intendersi come l’arrendevole accettazione di un barbaro fatalismo che uccide nell’anima ogni virtù di combattimento nella vita, quanto piuttosto di un’alta legge recondita, a cui la coscienza dell’uomo forte può andare incontro serena, non senza speranza di avviarla a miglior fine.

Giustamente il filosofo Seneca sentenziava: “il destino guida chi lo segue di buona voglia, trascina chi si ribella.”

Ed è con buona voglia che anch’io mi faccio guidare dal destino in questa avventura giunta già al terzo anno.

          Questa Nferta, composta da 8 poesie di cui 4 inedite, è come una pianticella che diventa ogni anno più robusta. Mi ritornano in mente i versi del poeta E.A. Maro: n’albero piccerillo aggio piantato…

       E grande è la mia felicità nel vedere che questa pianticella sta diventando un piccolo alberello, n’albero piccerillo, magari un ulivo.

      E, caso vuole, che in questa stessa canzone il poeta, riferendosi al suo amore non corrisposto, canti: forse sta ncielo destinato e scritto… concludendo felicemente, scevro da ogni preoccupazione per il compiersi degli eventi, certo di non avere nulla da temere dal destino: «Nun se cumanna ’o core.» E i’ me sto zitto…

         Non è forse vero che ogni impedimento è giovamento? Ed allora io pure me sto zitto, aggiungo solamente: buon anno a tutti.

Dicembre 2004








Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2006 - Le Mani



Ho sempre pensato che la mano fosse uno strumento meraviglioso, avendo la duplice funzione dell’azione e la capacità, incredibile, di comunicare pensieri e sentimenti.

Più che gli occhi, la mano è la vera anima delle persone. Essa ne rivela l’indole, il carattere e la natura: mani affusolate, candide, ben curate, tenere e armoniose non possono che appartenere ad una persona gentile e generosa. Ruvide e nodose, invece, sono le mani dei contadini. Gracili e delicate le mani degli anziani genitori, consumate per le tante carezze profuse a figli e nipoti.

Il linguaggio dei gesti ha sempre avuto una grande importanza, soprattutto per i napoletani, poiché associato al linguaggio verbale, serve per rafforzare alcune espressioni o per meglio esprimere taluni concetti. Chi è che non riesce a capire una conversazione fatta da due persone di cui non si riesce a sentire le parole?

Ma, ancor meglio, la mano esprime sentimenti, emozioni, stati d’animo. Le mani parlano. Quante frasi o parole racchiude la carezza che una mamma fa al suo bambino? Un gesto antico e magico, che riporta al primo contatto con il corpo materno. Imporre la mano significa benedire e conferire la propria forza ad un’altra persona. La carezza è il linguaggio degli innamorati nei dolci momenti di intimità, quando viene spontaneo sfiorarsi, toccarsi e percepire sotto la mano la risposta della pelle. Una carezza serve a calmare l’agitazione di una arrabbiatura;  a rassicurare l’amico preoccupato; ad incoraggiare il pavido.

Gesti semplici di tal genere costituiscono evidentemente il patrimonio originario dell’umanità.

Nel suo insieme la mano dell’uomo è una brillante ed inimitabile opera di ingegneria. Attraverso la precisione delle dita i non vedenti hanno imparato a leggere e, addirittura, per la elevata sensibilità tattile, ad ascoltare la musica.

Il filosofo Immanuel Kant ha definito la mano “la parte visibile del cervello”.
In alcune filosofie orientali la mano è considerata come un universo in miniatura che rappresenta completamente il sistema cosmico. Già Aristotele aveva scritto che “le linee non sono state tracciate senza ragione nelle mani degli uomini... Esse derivano dall’influenza del Cielo e definiscono la nostra individualità”.

Due mani innalzate verso l’alto esprimono implorazione; le mani tese verso un’altra persona invitano all’abbraccio; rivolte verso il basso alla calma; le mani congiunte alla preghiera. Ed espliciti sono i modi di dire come: « Essere in buone mani », « lavarsene le mani ».

Ma come ogni strumento meraviglioso è importante l’uso che se ne fa. Poiché le mani possono avere più significati e valenze, positive ma anche negative. Le mani possono offendere; possono produrre violenza; possono uccidere. Allora è bene « non sporcarsi le mani ».

Esse ci nutrono, ci vestono, ci consolano; per tutte le opere dell’uomo bisogna ringraziare le mani.

Questa Nferta, giunta ormai al quarto anno di pubblicazione, contiene otto poesie dedicate alle mani ed ai sentimenti e le passioni che esse evocano. Ed è così, stringendovi idealmente le mani in segno di amicizia, che voglio augurare a tutti voi un felice anno nuovo.

Dicembre 2005





Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2007 - Il Presepio



        Ricordo, quand’ero bambino, che all’approssimarsi del Natale casa mia diventava un vero e proprio cantiere: legno, sughero, cartone, colla di pesce e qunt’altro serviva per la costruzione del presepio. Certe volte, per realizzare tutte le scene previste e sistemare i vari personaggi, mio padre requisiva addirittura un’intera stanza poiché il consueto spazio non era, ahimé, sufficiente per contenere quanto la sua fantasia stava progettando. E allora tutti a spostare i mobili o a trovare la sistemazione a chi in quella stanza ci dormiva.

Visto con gli occhi del bambino che ero, tutto quanto mi sembrava l’inizio di un meraviglioso viaggio. Quando l’opera, infine, era compiuta, sembravo quel personaggio che sul presepio è denominato il pastore della meraviglia, poiché è rappresentato in estatica adorazione. Il suo posto è di fronte alla grotta, in ginocchio e con le braccia aperte, estasiato dal compiersi del prodigio.

         Ma a chi è che non piace il presepio? Anche l’eduardiano Nennillo, figlio di Luca Cupiello, alla fine è costretto ad ammettere che il presepio gli piace, poiché niente, meglio di quello napoletano, ricco di scenografie e di personaggi, riesce a rappresentare tutta la magia del Natale e della Natività.

            I  pastori, semplici e poetiche figurine di terracotta, ora attingendo alle Sacre Scritture ora ai Vangeli apocrifi, incarnano, nelle loro colorate scene, una serie di simbolismi nei quali si possono identificare il bene e il male.

            Rivedo ancora, in lontananza, arrivare i Re Magi in groppa ai cammelli o a meravigliosi cavalli che, partendo da Oriente, rappresentano il viaggio del sole nella notte che si compie con la nascita del Sole / Bambino. Essi sono guidati da una Stella che raffigura il cammino per giungere alla verità.

            La Lavandaia, testimone, come levatrice, al parto della Madonna, figura purificatrice, poiché i panni puliti sono la metafora della cancellazione del peccato. La donna col bambino, simbolo della maternità e della vita. La Zingara, il Cacciatore, il pastore dormiente, meglio conosciuto come Benino, a cui gli Angeli in sonno danno l’Annunzio della nascita di Gesù. E ancora ’O chiammatore, che con la mano alla bocca a mo’ di megafono, annuncia la nascita del Bambino. E l’Asinello, dall’intellegente umiltà e il Bue, forte e paziente, a rappresentare le doti del vero cristiano.

        L’Oste, col tovagliolo sul braccio, sull’uscio della taverna / antro, oscuro simbolo di perdizione, e l’inquietante e cruento Macellaio con il coltellaccio alzato pronto a colpire, a cui vengono associate leggende che rimandano ad un mondo maligno. E poi il Barbiere, l’Ubriaco, ed un campionario di figure negative, o demoniache, tutti raffigurati come mostri del buio e dell’inconscio.

         Gesù nasce in una mangiatoia, da cui il nome presepio. Dice Sant’Agostino che Gesù Cristo nascendo volle essere posto nella mangiatoia, dove trovano il pasto gli animali, per darci ad intendere che Egli si è fatto uomo anche per rendersi cibo nostro.

            In questa Sacra rappresentazione, piena di anacronismi e di paradossi, dove il bene e il male coesistono, non è difficile intravedere la stessa Napoli: le case una sull’altra, le osterie, il paesaggio, ed i personaggi così vari e così contraddittori che altri non sono se non il popolo napoletano. Come immancabile è sulla scena che fa da sfondo al presepio, il Vesuvio in lontananza che domina la città. Ed è forse proprio per questo che il presepio ci piace: perché in questo coacervo di contraddizioni alla fine del viaggio si compie il prodigio.

            Buon Natale a tutti.

Dicembre 2006






Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2008 - La Scrittura


Con l’avvento dei computer sembra che la scrittura, quella manuale, stia completamente scomparendo. Nessuno più lascia traccia della sua calligrafia. Eppure i grafologi, attraverso il “tracciato” di un rigo scritto a penna, sono in grado di capire la personalità di una persona.

Quella di comunicare per l’uomo è stata una delle prime necessità e l’idea di servirsi di segni per rappresentare il proprio pensiero è stata sicuramente una delle invenzioni più geniali dell’umanità.

Dai graffiti preistorici realizzati sulle pareti di caverne e grotte, i simboli ideografici che rappresentavano concetti, nel corso di circa cinquemila anni, si sono trasformati, via via, in simboli fonetici che rappresentano suoni, fino a giungere alla scrittura dei giorni nostri.

L’uomo, sempre più affascinato dagli intrecci bizzarri delle linee e dei segni, incominciò a porre attenzione a ciò che scriveva e come lo scriveva creando, nel corso dei secoli, delle regole di bellezza e di armonia che governassero la forma delle lettere.

Ma, come dicevamo, la tecnologia (e la diffusione di computer in ogni dove) ha fatto sì che la penna quasi non si usi più.

Eppure, chi è che di fronte ad una vecchia lettera vergata a mano non prova un poco di emozione nel tentativo fantastico di immaginare la persona che l’ha scritta! Chi è che vedendo una pagina autografa di un grande scrittore non cerchi di immaginarlo al proprio tavolo di lavoro mentre si specchia in un candido foglio bianco.

L’andamento del rigo, verso destra o verso sinistra, ci fa immaginare l’abituale atteggiamento del suo corpo. La pressione esercitata sul foglio, quel solco talvolta pesante, talvolta invisibile, la sua volontà di imporsi e di affermarsi. E la grandezza delle lettere, la rappresentazione del senso dell’Io.

È nella scrittura che vengono proiettati gli ideali, la fantasia, le aspirazioni, la coscienza, l’intelligenza, gli istinti, la sessualità.

La chiarezza delle lettere è indice di chiarezza di idee, di correttezza nell’azione. L’andatura, sciolta o veloce, rigida o morbida, regolare o sicura, simboleggia i vari atteggiamenti di aggressività, di difesa, di adattamento, di disponibilità, di ribellione. Insomma, potremmo concludere dicendo: «mostrami come scrivi e ti dirò chi sei. »

Tutti i computer del mondo scrivono allo stesso modo. Ma io rifiuto l’idea che milioni  di persone siano come tanti robot incantati dal magico “schermo delle mie brame”. L’omologazione, l’alienazione, ci conducono alla deriva di una società appiattita, senza più personalità.

Ancora oggi, quando mi frulla un’idea per la testa, mi piace appuntarmela su un pezzetto di carta, sul lembo di un tovagliolo del bar, sul biglietto del tram. La penna corre veloce sul foglietto, sembra affannare mentre rincorre il mio pensiero che detta velocemente.

Mi piace l’idea di lasciare un tracciato della mia scrittura. Una scrittura spontanea, di chi scrive per sé stesso, senza porsi il problema della leggibilità o della presentazione formale. Certo non è attraverso la scrittura che l’individuo rivela la propria anima, ma sicuramente ci mostra la sua posizione nei confronti del mondo in cui vive. Sarà una nuova opportunità per fare conoscenza.
Felice anno nuovo.

Dicembre 2007






Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2009 - La luna




            Da tempo immemorabile la luna ha alimentato una quantità impressionante di culti, di credenze e di pratiche magico - religiose.

Più del sole, sicuramente, la luna ci invita a ragionare sulla perfezione del firmamento, sull’armonia del creato e sull’esistenza dell’uomo. Forse perché la luna, contrariamente al sole, si lascia ammirare, si lascia contemplare.

            La luna è riservata, suscita emozioni, procura un senso di rapimento, provoca malinconia. Ma dona anche un senso di pace, di serenità, di confidente complicità.

            Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / silenziosa luna? Così, il grande poeta di Recanati si interroga nel mentre ammira l’astro d’argento durante le sue lunghe notti solitarie d’in su i veroni del paterno ostello. Contemplazioni dolorose, un vano e pur dolce ragionare, pieno di domande senza risposta. Domande che, ancor’oggi, si pone l’uomo moderno: chi sono, perché sono, qual è la ragione della mia vita e quella dell’universo.

            La luna, bella e infinitamente lontana, è l’immagine della natura, che sembra suggerirci una promessa d’infinito, di felicità, evocata dalla sua sublime bellezza, e, d’altra parte, impassibile osservatrice del nostro destino effimero  e doloroso.

            La luna è affascinante per la sua rotondità, per il mutare della forma, per il crescere e decrescere, per la sua ciclicità che richiama il tempo che scorre e l’esistenza stessa. Essa rende visibile il perpetuo ricominciare, la catena ininterrotta delle nascite, delle morti e delle rinascite. Ogni mese lunare, per tre notti, essa sparisce per “rinascere” poi ancora più splendente.

            È la metafora della conoscenza, poiché brilla di notte e la sua luce discreta, opposta alla brutale luce del sole che illumina il mondo delle apparenze, rischiara le tenebre.

            La luna è collegata alla donna, alla femminilità. Immagine della Mater Magna, evoca la madre in tutte le sue funzioni, associazione simbolica legata ai cicli mestruali che hanno un andamento che richiama quelli lunari. Il corpo della donna offre così una visione microcosmica dei ritmi universali e ciò spiega perché la luna è il simbolo della fecondità e della maternità.

            La luna, poi, è, per antonomasia, l’astro degli innamorati: placido, affascinante, che sa, all’occorrenza, attenuare la propria luminosità con una nuvola; è colei a cui il sole, come recita il Principe della risata in una sua poesia, nel lasciarle ’a cunzegna p’ ’a nuttata / lle dice dinto ’a recchia: « I’ vaco a’ casa: / t’arraccumanno tutt’ ’e nnammurate ».
            Buon Anno.



Napoli, dicembre 2008







Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2010 - La rosa




La rosa, coltivata fin dalla notte dei tempi, è per gli occidentali quello che il loto è per gli orientali: insieme di spiritualità e di terreno, la manifestazione  di ciò che si eleva e sboccia al di sopra delle mediocrità. Designa la perfezione assoluta. È emblema di eleganza, di bellezza e di fragilità.

La sua contemplazione evoca, secondo la nostra condizione spirituale, tanti e diversi simboli: primo fra tutti, ispirato dalla sua breve durata, la caducità della vita, come scrive nel IV secolo il poeta latino Decimo Magno Ausonio: Un unico giorno abbraccia la vita della rosa.

È il fiore più  cantato dai poeti e nominato dagli antichi scrittori. Nel Vecchio Testamento, si parla di rose, nel Catico dei Cantici si cita la rosa di Saron, Omero ci dice che Aurora, la dea del mattino, con "dita di rosa" colora il mondo ad ogni alba. Saffo, Catullo, Anacreonte, Virgilio, Ovidio ed Ippocrate erano stregati dal suo fascino. Ispirandosi alla sua immagine, i poeti del Medioevo hanno scritto innumerevoli poesie sulla fuggevole bellezza femminile. Dante paragona l’amore paradisiaco al centro di una rosa.

È uno dei simboli privilegiati dell’amore in letteratura e nella poesia: essa incarna sia la profondità dei sentimenti, la foga della passione, la dolcezza dell’affetto (per il colore e la consistenza vellutata dei petali), sia la sofferenza amorosa, le pene del cuore, la malinconia (le spine).

Il valore simbolico delle rose risale al mito di Adone. Inizialmente tutte le rose erano bianche. Venere si era follemente innamorata di Adone. Marte, amante della dea, ingelosito si trasformò in cinghiale e uccise Adone il cui sangue, per volere di Venere, colorò le pallide rose di un bel rosso vermiglio.

Nelle feste di Dioniso, il dio dell’ebbrezza, gli antichi greci erano soliti coronarsi di rose, poiché si credeva che esse avessero la virtù di calmare i bollori del vino e aiutassero gli ubriachi a non rivelare i loro segreti. Anche per questo motivo la rosa divenne poi il simbolo della riservatezza, e utilizzata per  ornare i confessionali con la scritta Sub rose, sotto il sigillo del silenzio e della discrezione.

Nell’arte religiosa, come si può vedere soprattutto negli innumerevoli rosoni nelle vetrate e nelle pareti delle chiese e delle cattedrali, la rosa esprime il silenzio, il raccoglimento e la pace interiore che presiede all’incontro con Dio.

La festa delle rose o Rosalia rientra nel culto dei morti degli antichi Romani, ed è già testimoniata a partire dal sec.I d.C.. Tale costume è ancora presente in alcune regioni d’Italia, dove la domenica di Pentecoste viene chiamata « Pasqua delle rose ».

Nella simbologia cristiana la rosa rossa è il simbolo del sangue versato dal Crocifisso. La connessione tra la croce e la rosa costituisce l’ordine iniziatico della setta esoterica dei Rosa-Croce.

Ancora molti e significativi sono i simboli rinconducibili alla rosa, ma mi piace concludere questa dissertazione sulla rosa con alcune righe tratte dal Piccolo Principe di Saint-Exupéry: « Gli uomini coltivano cinquemila rose nello stesso giardino... e non trovano quello che cercano. E tuttavia quello che cercano potrebbe essere trovato in una sola rosa. Ma gli occhi sono ciechi. Bisogna cercare col cuore. »

Se son rose fioriranno.

                                                                                 

Napoli, dicembre 2009





Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2011 - Il vino




            “Chiunque abbia avuto un rimorso da placare, un ricordo da evocare, un dolore da annegare, o abbia fatto castelli in aria, tutti hanno finito per invocarti, o dio misterioso celato nelle fibre della vite.” Così Baudelaire celebra il vino nel libro Paradisi artificiali.

            Ed il nettare degli dei, nel suo linguaggio arcano, sembra cantare: “scenderò nel tuo petto, come un’ambrosia vegetale. Sarò il grano che feconda il solco scavato con dolore. La nostra intima unione creerà la poesia. Noi due, insieme, saremo un dio e volteggeremo verso l’infinito, come gli uccelli, le farfalle, i fili di ragno, i profumi e tutte le cose alate.”

            Perché il vino è il mezzo più sano e sociale che l’uomo usa per esaltare la propria personalità, per animare le sue speranze ed elevarsi verso l’infinito.

            Il vino è presente nelle abitudini degli uomini da almeno quattromila anni, dai Sumeri fino ai nostri giorni. E fin da quando il primo uomo alzò una coppa ricolma di vino verso l’alto, fu pronunciato il primo brindisi.

            Il vino, bevuto nell’ambito di un rituale, rappresenta una «bevanda spirituale», perfino divina, piena di fuoco vitale. Nell’antichità determinava l’unione con Dioniso, la divinità dell’ebbrezza; il viatico necessario per spezzare ogni incantesimo, smascherare le bugie. “Un uomo che beve soltanto acqua - scrive ancora Baudelaire - ha un segreto da nascondere ai propri simili.”

            Il bere insieme come momento di comunione. Il simposio, quindi, dal greco syn+pìnein, bere insieme, ha una indiscussa componente di sacralità; bere significa, in questo contesto, circondarsi di un’atmosfera magica. Il vino è esso stesso divinità. Chi brinda insieme crea una comunità dalla quale sono esclusi i malvagi.

            Alle feste non doveva mai mancare il vino. Il primo miracolo di Gesù, durante le nozze di Cana, fu la trasformazione dell’acqua in vino. E spesso, il vino, è usato come rapporto simbolico con il sangue, e non soltanto nel sacramento cristiano.

            Un suo eccessivo consumo altera il suo potere in forma negativa ma, se bevuto con consapevolezza, favorisce, con i suoi effetti inebrianti, l’allegria e il buonumore; forza dello spirito, vince il peso della terra e mette le ali alla fantasia. Facilita il rapporto di confidenza che si viene a creare tra persone sconosciute e, al tempo stesso, rende più duratura una vecchia amicizia.

            Ed è in nome dell’amicizia che quest’anno voglio brindare al nuovo che arriva, sollevando insieme a voi un immaginario calice di vino nella speranza che l’augurio formulato vada a buon fine.

            Naturalmente il brindisi è onorato solo quando l’invitato vuota completamente il bicchiere, poiché come dice Nicola Vottiero nel suo Calateo napolitano (1789) “Chille che beveno pure hanno d’avé crianza. Chi  è nvetato a bevere e resta lo vino dinto a lo bicchiero, fa  mala crianza.”

            Addó và!

Napoli, dicembre 2010






Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2012 - Il volo / Gli uccelli




Un proverbio cinese dice che non basta avere le ali per volare. Parafrasando, si potrebbe dire che per volare non è necessario averle. Perché nella interiore recondita aspirazione dell’uomo, volare è come uscire, fuggire da un luogo chiuso e inospitale, addentrarsi nell’universo, raggiungere il cielo nel senso metafisico.

            Ecco perché nella fantasia umana si sono, sin dalle età più remote, raffigurati alati gli esseri sovrannaturali.

            Fatta eccezione per alcune figure negative del mondo antico, come i geni dell’aria, le fate o le arpie, mostruose creature con viso di donna e corpo d’uccello, il significato popolare attribuito alle ali è positivo e si collega all’idea della leggerezza, dell’innalzamento, dell’elevazione. E tutte le creature che si avvicinano al cielo per mezzo delle loro ali, non sono altro che l’incarnazione del desiderio umano di staccarsi dal peso della vita terrena e di raggiungere sfere più elevate, al di sopra delle miserie umane.

            « Invòlati lonatano da questi miasmi ammorbanti, - scrive Baudelaire rivolgendosi al proprio spirito - sali a purificarti nell’aria superiore, / e bevi, come un puro e divino liquore, / il fuoco radioso degli spazi limpidi ».

        Le immagini più emblematiche della mitologia sono alate: da Ermes, il veloce messaggero degli Dei, raffigurato coi calzari alati, ad Eros, il piccolo dio dell’amore.

            Il mitico Icaro, simbolo del desiderio di elevazione, dell’eroe in cerca dell’assoluto e della verità, il quale, precipitato in mare per essersi avvicinato con le sue ali di cera troppo al sole, simboleggia anche l’ammonimento all’uomo a non insuperbirsi, a non fare cose superiori alle proprie capacità, a rispettare i limiti.

            Tutte le figure simboliche della Vittoria sono alate. Basti ricordare quella meravigliosa di Samotracia, che rappresenta Nike, la giovane dea alata figlia di Zeus che porta l’annuncio delle vittorie militari, mentre si posa sulla prua di una nave da battaglia.

            Col Cristianesimo, le ali diventano simboli della Fede. Ed ecco gli Arcangeli dalle grandi ali aperte che raffigurano la vittoria del bene sul male.

            Simbolicamente l’ala non vuole rappresentare una persona capace di volare in senso fisico, quanto piuttosto di sapersi sollevare dal peso dell’esistenza.

            Prima di qualunque altro essere alato, gli uccelli rappresentano l’anima umana nella sua natura aerea, nella sua fluidità e nella sua levità. Essi, grazie al volo, trascendono il tempo e lo ricongiungono all’eternità.

            Nell’antica Roma il volo degli uccelli era oggetto di interpretazione da parte dei sacerdoti per conoscere la volontà degli dei e predire il futuro.

            Santa Ildegarda di Bingen, scrittrice, musicista, guaritrice, filosofa e poetessa vissuta nel XII secolo, scrisse a tal proposito: « Gli uccelli simboleggiano la forza che ispira agli uomini discorsi saggi e che permette loro di poter prevedere molte cose prima che si realizzino splendidamente. Come gli uccelli vengono innalzati dalle loro piume e si muovono ovunque nell’aria, così nel corpo l’anima viene sollevata attraverso il pensiero e si estende ovunque ».

            Gli uccelli sono in possesso della conoscenza e comprendere il loro linguaggio è segno di saggezza. Per questo Salomone, personificazione del saggio, comprendeva il loro linguaggio e, per lo stesso motivo, San Francesco predicava agli uccelli. Essi sono dunque gli intermediari privilegiati tra gli uomini e gli dei, tra la terra e il cielo, tra il basso e l’alto.

            Narra una  leggenda medievale che un giorno un monaco chiese al Signore di concedergli una grande gioia. Così, mentre era intento a pregare, gli si presentò un angelo sotto forma di uccello. Nel tentativo di catturarlo, il monaco lo inseguì fuori dal monastero fino ad un albero dove l’uccello si posò e si mise a cinguettare suoni melodiosi e dolcissimi. Immerso in quei canti paradisiaci, il monaco dimenticò lo scorrere del tempo. Quando tornò al convento, nessuno lo riconobbe, neppure il custode. E quando chiese dell’abate gli fu risposto che era morto trecento anni prima. Il monaco coprese allora di aver ascoltato il canto dell’uccello per tre secoli.

            Scrive Victor Hugo: « Siate come l’uccello, posato per un istante / su rami troppo fragili, / che sente piegarsi la fronda e canta tuttavia, / sapendo d’aver ali! ».
                                                                                 


Napoli, dicembre 2011






Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2013 - Il bacio




            « Ma poi che cos’è un bacio? Un giuramento fatto poco più da presso, un più preciso patto, una confessione che sigillar si vuole, un apostrofo rosa messo tra le parole “T’amo”; un segreto detto sulla bocca, un istante d’infinito che ha il fruscio d’un’ape tra le piante, una comunione che ha gusto di fiore, un mezzo di potersi respirare un po’ il cuore e assaporarsi l’anima a fior di labbra ». Così descrive il bacio Cyrano de Bergerac nell’omonima opera di Edmond Rostand.

            Il bacio trae origine dalla credenza che l’anima umana stesse nel respiro e così, attraverso di esso, confondendo i due fiati si accordassero le anime degli amanti: assaporarsi l’anima a fior di labbra.
     
            Nel medio evo, i monaci, non avendo granché da fare, classificarono tutti i tipi di bacio e convenirono che esso poteva avere ben quindici significati: da quello di adorazione a quello di infamia, da quello di Giuda a quello di Paolo e Francesca; ed a seconda se esso viene dato sulle gote, sulla fronte o sulle mani, rappresenta, la benedizione, il rispetto, la fedeltà, l’amicizia, la promessa e così via. Ma in tutti questi casi il bacio è unilaterale, nel senso che c’è chi lo dona e chi lo riceve. C’è un solo bacio che possiamo definire reciproco: quello che si scambiano gli amanti sulla bocca. Quello che esprime lo scambio dei sentimenti, la manifestazione dell’amore, la scintilla che accende il desiderio.

            Voltaire, parlando del bacio, dice che l’uomo e alcuni uccelli sono i soli animali che conoscono questo mezzo per testimoniare i loro sentimenti più teneri. Non è da escludere che il bacio sia la lenta trasformazione di un atto puramente materno, quello dell’imboccamento che si vede comunemente negli uccelli, per cui esso fu prima amorevole e poi erotico. Altri, invece, vogliono che il bacio sia la continuazione del gesto infantile della suzione, l’istinto del lattante di suggere dalla mammella.

            Ma come baciavano i nostri progenitori? L’uomo preistorico fu senza dubbio un selvaggio, rude, brutale, poco intelligente; quindi anche il suo bacio non doveva essere che l’espressione di un’indole selvaggia, primitiva: cioè nient’altro che un morso non molto dissimile da quello che tuttora gli animali si scambiano durante gli accoppiamenti. Infatti, magnarse a uno ’e vase, vuol dire baciarlo avidamente, coprirlo di baci, che è proprio delle mamme quando baciano i loro figli.

            Certo, gradualmente, a poco a poco, il bacio dovette ingentilirsi ed evolversi dalla sua primitiva violenza fino  divenire quello che è per noi ora. Ma qualunque sia l’origine, è evidente constatare come il bacio sia da tempo divenuto una consuetudine cortese, una manifestazione raffinata, un’espressione dolcissima e quasi una necessità spirituale. L’atto d’amore più comune nella vita!

            Non si può parlare del bacio senza che il pensiero ricorra subito alla bocca. E, appunto, in greco « baciare » vien detto « amare con la bocca ». E nei baci d’amore, quelli cioè che maggiormente ci interessano, il desiderio, l’intensità, la dolcezza, sono ispirati non solo dal trasporto, ma anche dalla bellezza di una bocca invitante.

            Resta innegabile che i baci più belli sono quelli che si danno con parsimonia, che si conquistano faticosamente, perché sono i più preziosi... quelli che si assaporano e si gustano con lentezza e compiacimento. Lo scrittore francese Claude Joseph Dorat in una sua opera dice alla sua Taide: “Promettimi nove baci... dammene otto, e lascia che lotti per il nono.”

                                                                      

Napoli, dicembre 2012






Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2014 - Gli angeli




            Narra la Bibbia che nel sesto mese, l’arcangelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea chiamata Nazaret, a una vergine promessa sposa di un uomo chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei disse: « Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te ».

            Gli angeli sono i messaggeri di Dio e la personificazione della sua volontà. Sono l’idea di entità intermedie tra la dimensione umana e quella divina, l’ideale ponte tra il cielo e la terra. Superiori all’uomo per saggezza, potenza e scienza, sono rappresentati come figure umane vestite di bianco, alate e coronate di aureola. In mano hanno la bacchetta del messaggero, o la spada fiammeggiante per combattere il maligno, o la tromba per annunciare il Giudizio Univarsale. Nel XII secolo gli angeli vengono raffigurati simbolicamente con teste alate, indice di « incorporeità » che trova la sua massima espressione nei putti dell’arte barocca.

            E come non ricordare i sette Arcangeli che stanno al fianco di Dio; i Cherubini, leoni alati con la testa umana, tutori della conoscenza divina, che con le loro spade di fuoco proteggono e custodiscono le porte del Paradiso e l’Arca dell’Alleanza; e gli “ardenti” Serafini, personificazione della luce e della purificazione, che circondano, volteggiando con le loro sei ali, il trono di Dio cantandone le lodi. E dove il cielo si congiunge con la terra, troviamo i Troni, assisi sui loro troni, esseri purissimi al di sopra di ogni tentazione, i “facchini di Dio”, che manifestano la sua giustizia “portando” agli uomini i suoi insegnamenti.

            L’angelo si oppone alla stupidaggine: “Essere un angelo” vuol dire agire con prudenza e assennatezza. Ed è anche vicinissimo al meraviglioso, alla bellezza, al fascino: “un viso d’angelo”.

            Anche se la bibbia non fa che poche allusioni agli angeli custodi, le credenze popolari, soprattutto dopo il XIX secolo, riservano un posto importante a queste figure che hanno il compito di guidare e di proteggere gli esserei umani.

            Quanti bambini, la sera prima di dormire, hanno rivolto la loro preghiera all’Angelo Custode? indicibili attimi di pace, di tenerezza e di sicurezza che fugavano le ombre della notte.

            E se l’Angelo non fosse altro che il riverbero della nostra coscienza interiore, una percezione impalpabile della nostra Anima? Un’entità che ci insegna e ci assiste sotto mentite spoglie? Sant’Agostino dice: “La parola angelo designa l’ufficio non la natura. Se si chiede il nome di questa natura si risponde che è spirito, se si chiede l’ufficio si risponde che è angelo. È spirito per quello che è, mentre per quello che compie è angelo.”

            E allora gli angeli non sono solo come ce li immaginiamo noi, non vivono solo in cielo. A volte penso che Dio con alcuni abbia fatto un’eccezione, lasciandoli sulla terra. Suggestione affascinante: chissà quanti ne abbiamo incontrati senza neppure saperlo e, forse, senza che neppure loro sapessero di essere degli angeli.



Napoli, dicembre 2013







Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2015 - I bambini


In un passo del « Fedone » di Platone, Cebes Tebano, pensando alla morte di Socrate che stava per bere la cicuta, si mette a piangere. Socrate lo rimprovera per quel pianto e Cebes si scusa dicendo che non è lui che piange ma il fanciullino che è in lui.

Ispirandosi a questo brano, il Pascoli aggiunge che « è dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello. »

In tutti i miti e le leggende, il bambino, simbolo di purezza e di semplicità, è contrapposto all’uomo adulto che, invece, è corrotto e moralmente viziato. Egli incarna l’origine, il futuro, l’aspettativa, la speranza. È ponendo fede nel bambino che l’umanità progetta il futuro e idealmente realizza ciò che attualmente gli riesce difficile.

La purezza del bambino permette di vedere ciò che gli uomini ormai non riescono più a vedere. La sua mano vergine si pensa sia guidata da Dio. Gli angeli stessi, sono immaginati come bambini alati. Solo a loro è permesso di entrare in un universo magico e meraviglioso. Scrive Angelo Silesio: « Se non diventi un bimbo, non entrerai là dove sono i figli di Dio: la porta è troppo piccola ».
La credenza popolare vuole che i bambini siano capaci di vedere gli angeli custodi che li accompagnano, e con essi si intrattengono e si rallegrano. E nel sonno, quando ridono, giocano con loro.

Il bambino crede in Dio come crede nelle fate e nelle streghe; crede negli incantesimi e ai boschi incantati; in ciò che si vede e in ciò che non si vede o che gli adulti non vedono più. Ma ha discernimento e saggezza per distinguere il bene dal male, i buoni dai cattivi. Egli è l’aspettativa dei genitori, della società che investe su di lui, e la perpetuazione della famiglia.

È la spensieretazza, la voglia improvvisa e stravagante, il desiderio bizzarro, l’irrazionalità e la personificazione dell’amore puro e disinteressato. Lo stesso Cupido dei Romani, simbolo di giovinezza, è un bambino che con le sue frecce ringiovanisce i cuori degli innamorati.



Napoli, dicembre 2014






Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2016 - La sera / La notte



Forse nessuno, meglio di Ugo Foscolo, ha saputo rappresentare liricamente il dualismo simbolico della sera: il suo aspetto negativo dovuto all’opposizione alla luce al calar delle tenebre, e quello positivo di riposo e di meditazione.
La sua attesa è così suggestiva che, come scrive il poeta, « lo spirto guerrier » che ruggisce dentro ognuno di noi, si placa difronte alla sua serenità e alla sua quiete.
È questo il momento in cui si raccolgono i pensieri e si lasciano alle spalle tutte le preoccupazioni della giornata. È l’ora in cui l’uomo si riconcilia con l’esistenza mitigando il travaglio del vivere quotidiano.

La discesa delle ombre notturne dona conforto e tranquillità all’animo umano dissipando le inquietudini del giorno. Il silenzio offre interminabili attimi di godimento, di dolcezza e di pace interiore.
Mentre tutto dorme, l’uomo ritrova se stesso nella contemplazione della luna e delle stelle, e nell’ammirazione della natura, soffermandosi a riflettere sul vero significato dell’esistenza.

Nella mitologia greco-romana, la dea Nyx, la notte, vestita di nero e con l’abito trapunto di stelle, ha origine dal Caos e, unendosi al fratello Erebo, partorisce Etere (l’aria) e Emera (il giorno luminoso). Ma suo figlio è anche Hypnos, il sonno. Dunque la notte è la madre del sonno, dei sogni e dei piaceri amorosi. Le notti erano spesso prolungate, a piacimento degli dei, che fermavano il sole e la luna per meglio realizzare le loro imprese. Ma è anche madre della morte Thànatos, la « fatal quiete », e di quel Caronte, traghettatore infernale, di dantesca memoria.

I sogni sono le aspirazioni segrete degli uomini, i progetti non ancora realizzati, il futuro visto attraverso la nebbia fumosa della indomita speranza. I sogni sono una realtà parallela che si vive mentre si dorme. Sono i pensieri, i suoni, le voci di un mondo onirico e irreale che ci rimanda il mondo tangibile.

I sogni sono i posti conosciuti e visitati e i luoghi mai visti ma che si desidera visitare o dai quali si  desidera fuggire. A volte richiamano piacevoli eventi, altre volte richiamano i nostri più oscuri segreti, le paure e le fantasie più intime. Sono spaventosi o ricchi di immagini felici.

È al calar delle tenebre che il mondo rallenta, che la frenesia del vivere quotidiano riporta le lancette del proprio orologio sullo scorrere lento e sereno del dolce vivere.
Kahlil Gibran ha scritto: « Per arrivare all’alba non c’è altra via che la notte ». In fondo, è dalla notte che nasce il giorno.

                                                                                        

Napoli, dicembre 2015






Nferta p' 'o Capodanno d' 'o 2017 - Gli occhi


Si dice che gli occhi sono lo specchio dell’anima, perché attraverso di essi si può riconoscere l’indole di una persona, le qualità, il modo di essere. E in quanto organo della percezione sensibile, sono anche simbolo della percezione intellettuale, e quindi strumento della conoscenza. Molti riti iniziatici consistono nell’apertura simbolica degli occhi, poiché essi sono l’accesso alla luce e alla verità.

L’occhio è simbolo della vigilanza, perciò è dipinto sulla prora dei vascelli dei naviganti. La pupilla si trova spesso sui monumenti antichi ed è l’emblema di Osiride, il Sole che, come scrisse Plutarco, getta lo sguardo su tutto il mondo. Nei caratteri geroglifici l’occhio, preceduto da una linea ondulata, significava ‘adorazione’. In tutte le tradizioni egizie, l’occhio è di natura solare e ignea, fonte di luce, di conoscenza e di fecondità.

Nella tradizione cristiana lo stesso Dio è rappresentato con un occhio, circondato dai raggi del Sole o inserito in un triangolo con la punta rivolta verso l’alto, simbolo dell’onnipotenza e dell’onniscienza divina.

anticamente, le persone malvagie, o quelle dotate di poteri magici, possedevano occhi capaci di pietrificare, di annullare o, almeno, contrastare il bene. Basti ricordare le mitologiche Gorgoni che avevano il potere di pietrificare chiunque avesse incrociato il loro sguardo.

La credenza popolare ha individuato il presunto influsso negativo nell’ «occhio cattivo» dello iettatore in grado di esercitare influssi malefici. Questo potere nefasto non è altro che il malocchio o occhiata cattiva, sguardo bieco che si può jettare, ossia, sortilegio malefico che si può scagliare contro qualcuno e aspettare che questa persona inaridisca lentamente, senza una causa apparente. La persona capace di gettare il malocchio si dice che tene ll’uocchie sicche.

L’errore, la collera, la violenza, la gelosia, accecano e l’accecamento impedisce di ragionare trasformando l’uomo razionale in una bestia irragionevole.
La cecità era prerogativa della Forntuna poiché essa distribuiva i suoi benefici indiscriminatamente, con gli occhi bendati. E ad occhi bendati veniva rappresentata anche la Giustizia la quale doveva essere esercitata senza tenere riguardo delle persone che giudicava.
Ma a volte il cieco rappresenta la conoscenza interiore. La cecità è il simbolo della visione interiore, della saggezza e della preveggenza. Nelle leggende e nei miti, i ‘veggenti’ sono spesso ciechi, a sottolineare la distinzione tra l’occhio spirituale (interiore) e l’occhio fisico (organo di senso).

Nella poesia elegiaca araba e persiana, l’occhio è associato con le sue numerose metafore alle idee di magia, pericolo, ebbrezza. L’occhio della bella è detto ebbro ma non di vino. Dante in un noto sonetto della Vita nuova, scrive: Ne li occhi porta la mia donna Amore.


                                                                                              Claudio Pennino


Napoli, dicembre 2016


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